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Falso ma vero

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Mariangela Paradisi, economista marchigiana, sul Corriere Adriatico del 3 aprile ha pubblicato uno splendido articolo sul tema delle griffe e dei relativi falsi. Un tema che si sposa assai bene con quanto discusso sul mio blog a proposito della vicenda Sean Blazer, ovvero il libro di Leone Belotti sui “mercanti di moda” che uscì 14 anni fa, e di cui ho parlato diffusamente qui. Con il permesso dell’Autrice vi propongo le argomentazioni di Mariangela, molto lucide e documentate, sulle quali mi piacerebbe sentire il parere di Blazer, per capire come la vede lui a tanti anni di distanza. [ccalz]

Che bello, è falso, ma sembra vero! Un orologio, una borsa, un capo d’abbigliamento, un paio di scarpe, un cappellino, un paio di occhiali, il Cd dell’ultimo concerto rock, un profumo, una cintura, un portafoglio. Che bello, è falso, ma sembra vero! Un “sembra vero” che gratifica chi desidera possedere oggetti che non può permettersi o il cui prezzo dell’originale, ragionandoci un po’ su, sembra assurdo pagare con la propria carta di credito. Con la carta gentilmente messa a disposizione dal partner di turno è tutto un altro discorso: in questo caso l’originale è d’obbligo, e il “sembra vero” riguarda, semmai, il partner galante.

Trecento euro di multa per chi è sorpreso ad acquistare prodotti “tarocchi”, eppure l’abitudine non si perde. Nel 2007, l’Ocse valutava attorno al 7-9 per cento la quota di vendite di merci contraffatte sull’intero commercio mondiale. Più o meno 200 miliardi di dollari i soli prodotti contraffatti che hanno attraversato le frontiere, più del doppio se si considerano anche i prodotti che circolavano all’interno delle singole aree doganali. Si passa dal 5 per cento del settore dell’orologeria; al 10 per cento della profumeria; al 20 per cento di moda e abbigliamento; al 25 per cento dell’audiovideo; al 35 per cento del software. Nel caso dei prodotti farmaceutici si arriva al 6 per cento, ma in questo caso l’incidenza degli acquisti di medicinali “non originali” (gli altri sono protetti da brevetti) è pressoché nulla da parte dei paesi ricchi, mentre arriva al 50 per cento per quelli in via di sviluppo. Qui la carta di credito galantemente ceduta dal partner c’entra poco ed è solo l’assurda pretesa di non morire che fa fiorente il mercato.
Mentre il direttore creativo di Gucci, Frida Giannini, in un’intervista dichiara che “quando dagli ambulanti che vendono i falsi non vedo le mie borse mi preoccupo”, a riprova che il mercato parallelo è anche fonte di promozione e pubblicità, l’Indicam – L’Istituto per la lotta alla contraffazione – ci fa sapere che tra il 1993 e il 2005 la stima della crescita mondiale della contraffazione dei prodotti è del 1850 per cento; che i posti di lavoro persi sono circa 270 mila, di cui 125 mila nell’Unione europea. Più del 50 per cento dei prodotti contraffatti è di provenienza cinese, coreana o delle fabbriche di Taiwan e degli altri paesi del Sud Est asiatico. Il 35 per cento proviene dal bacino mediterraneo, dove i leader della contraffazione sono Italia, Turchia e Marocco. In Italia, Marche, Toscana e Lazio la fanno da padrone nella pelletteria; la Campania, nell’abbigliamento e la componentistica; il Nord Est e Nord Ovest, nella componentistica e orologeria.
È di pochi giorni fa il sequestro – uno dei tanti – di griffe contraffatte per un valore di circa 200 mila euro, avvenuto nel livornese. Qual è la notizia? Che la Guardia di Finanza indaga anche sulle boutique del lusso quali possibili acquirenti. E il “Che bello, è falso, ma sembra vero!” assume dunque un significato ancora più vero: paghiamo per una borchia, una etichetta, una virgola, una incisione su una fibbia, non per la qualità o l’originalità di un prodotto. Ciò che si vuole acquistare è un segno distintivo da mostrare, un qualcosa che ci fa apparire ciò che non si è. Si compra un’apparenza che falsifica. E, dunque, perché mai le boutique dovrebbero vendere solo il vero? L’apparenza si paga cara.
Compriamo il falso perché la nostra società negli ultimi decenni ci ha insegnato che è l’apparenza che conta. Essere è apparire, consumando e dando l’idea di poterlo fare. Se non si può, si fa finta. Il “facciamo finta” dei bambini che, giocando, impersonano eroi immaginari, credendo che sia realtà. Una società resa infantile dalle suggestioni indotte dai grandi comunicatori. Ecco allora, vecchietti che “fanno finta” di essere gagliardi amatori; show girl che “fanno finta” di essere statiste; politici che “fanno finta” di avere qualcosa da dire; donne e uomini che “fanno finta” di poter comprare ciò che non possono comprare. Che differenza fa?
Un tempo si copiava: dall’artigiano e dalla sarta. Era, ed è, perfettamente lecito, oltre a essere una importante fonte di apprendimento. Oggi che tutto si fabbrica all’esterno, nessun apprendimento virtuoso si genera. Semplicemente si va di contraffazione, cioè si falsifica, commettendo un reato. Non importa: la falsificazione rende apparentemente democratico ciò che, in realtà, è fatto per distinguere e discriminare. Ma poiché all’apparire “uguale a” non si resiste, 300 euro di multa sono ben poco di fronte all’orgoglio del “lo sono anch’io”. Del resto, il “quanto vale” un individuo è ormai la somma del valore di ciò che indossa o di ciò che dice di essere, non certo la somma del valore delle sudate conoscenze, competenze e capacità raccontate nel suo curriculum. E allora, se l’understatement appartiene ai veri Vip – gli anonimi maglioncini di Marchionne, ad esempio – per gli altri è solo griffato, altrimenti non si è. Che bello, è falso, ma sembra vero! E dopo Carosello, tutti a nanna.

Mariangela Paradisi
Corriere Adriatico – Inserto della Domenica  
3 aprile 2011 


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